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#Review – “Argo” convince senza scadere nel patetico

Per quanto Ben Affleck, regista ed interprete di Argo, sia spesso nella nostra lista dei favoriti, non era facile condurre questo film ad un risultato accettabile.

La premessa è quella di un film ispirato ad avvenimenti reali, nello specifico la crisi nella rivoluzione teocratica iraniana del ’79-’80 che portò all’assalto dell’Ambasciata USA a Teheran e alla prigionia di tutto il personale li presente. Tutti catturati per mesi, ad eccezione di sei fortunati che riuscirono, nei primissimi concitati momenti dell’assedio, a fuggire per le strade della città, trovando asilo per alcune settimane nella residenza privata dell’ambasciatore canadese. Il film narra della rocambolesca estrazione dall’Iran dei sei sotto le mentite spoglie di troupe tecnica per un inesistente film di fantascienza, quell’Argo appunto richiamato nel titolo della pellicola.

In genere non gradiamo i film che prima dei titoli ricordano al pubblico “questo film è basato su una storia vera”. Scendere nella rappresentazione della realtà storica è sempre rischioso, perchè da un lato si rischia di appesantire con una scrittura e una regia troppo evidenti, se non stucchevoli, una narrazione di per sè lineare come il rapporto causa-effetto storico. Altro grosso rischio, quando si rappresentano cinematograficamente storie basate su avvenimenti sociopolitici, è quello di scadere nell’elogio partigiano per una tal ideologia o visione dei fatti, di questa o quella fazione. Come ha districato la matassa Ben Affleck? Ve lo diciamo dopo il break…

Diciamo subito che questo è un film americano, e quindi non nasconde un punto di vista occidentale sulla questione iraniana, nè una certa accondiscendenza espressa nel classico dualismo del cinema statunitense “il governo è una merda, ma in fondo ci sono anche brave persone”, classico emblema dell’individualismo Made in USA. Il pregio del film però è quello di utilizzare da un lato la nuda cronaca degli avvenimenti, dando il più possibile allo spettatore la possibilità di analizzare i fatti, dall’altro di puntare sinceramente sui personaggi e sulle loro storie personali, fatte di debolezze e fragilità.

Il film è un delicato equilibrio di elementi drammatici e ironici, che non lesina nella critica pungente sia al mondo dello spionaggio che a quello di Hollywood, grottescamente simili. Comincia in modo spiazzante, con il logo Warner Bros anni ’70, quasi ad immergere lo spettatore nella carta da parati beige del periodo, quindi parte un riassunto a fumetti con voce offscreen della storia dell’Iran, come tavole di uno storyboard, già a suggerire il metacinema della pellicola. La prima mezzora di pellicola, che funge da introduzione, mescola in maniera quasi indistinguibile, grazie ad un ottimo lavoro di fotografia e messa in scena, scene di repertorio e riprese cinematografiche.

Solo dopo trenta minuti appare per la prima volta sullo schermo Ben Affleck, sotto una spessa barba, e si vede la sede della CIA a Langley, Virgina. Dettaglio fondamentale: crediamo questo sia l’unico film della storia del cinema, a nostra memoria, in cui non appare la classica inquadratura di tre quarti dall’elicottero dell’edifico di Langley. Rifletteteci bene, quante volte avete visto un film d’azione o di spionaggio nel quale la CIA fosse implicata, e ad un certo punto avete visto quei dannati cinque secondi dall’alto col palazzone della CIA che si erge tra le verdi colline? E invece no. Qui la CIA la vediamo solo dal basso come un mesto filare di bigie finestre tutte uguali, mentre un uomo qualunque arriva in auto al suo posto di lavoro, mentre i dipendenti si muovono tra scrivanie in compensato e squallidi uffici, degni del più banale dei ministeri.

Oltre le splendide prove delle ben più che spalle comiche John Goodman e Alan Arkin, e alla convincente interpretazione di uno Scoot McNairy turbato ma capace di darsi una svolta, la forza del film è quella del protagonista, con Affleck che regge il ruolo quasi impeccabilmente per tutta la pellicola: un uomo qualunque, costretto dagli eventi a fare quel qualcosa di più per cambiare le cose. Un uomo mite e fragile, ma da troppo tempo reso cinico e analitico. Un padre che nel gioco col figlio, nel ritorno inconscio all’infanzia, si riappropria dell’innocenza perduta.

Quella stessa innocenza perduta che da sempre Hollywood, e di conseguenza l’America tutta, anelano di recuperare. E anche se fosse vero che, come sosteneva James Ellroy nel suo mastodontico romanzo American Tabloid, “L’America non è mai stata innocente…”, che importa? L’innocenza è un bel traguardo a cui ambire.

Il semaforo di Argo: Luce verde

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Redazione

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