La sessantacinquesima edizione della Berlinale si è conclusa con il trionfo di Taxi di Jafar Panahi, il regista iraniano costretto dal regime di Teheran a non uscire dal Paese, non rilasciare interviste e non girare film per 20 anni. Il premio, perciò, è stato ritirato dalla nipotina Hana Saeid – anche attrice nella pellicola – che, sopraffatta dall’emozione, nell’alzare il trofeo non è riuscita a trattenere le lacrime. Una scena bella e al contempo amara. Panahi ha realizzato la sua opera semplicemente piazzando una telecamere sul cruscotto del suo taxi e guidando – recitando – per le vie di Teheran. Un film piccolo, come giustamente l’hanno definito in tanti, ma anche immenso. Imbevuto di cuore, poesia, ironia, tangibile a autentica passione per il cinema. Di denuncia, una denuncia fatta tramite i racconti di coloro che salgono a bordo del veicolo.
“Il nostro – ha detto qualche giorno fa il direttore della Berlinale Dieter Kosslick – è un festival politico nel senso che siamo consapevoli di quel che succede nel mondo“. E questo premio vuole dunque essere un segnale forte, fortissimo. L’Orso d’argento – Gran premio della giuria è invece andato a El Club del cileno Pablo Larraìn: racconta la vicenda di un gruppo di preti pedofili tenuto nascosto dalla chiesa in una casa sul mare. “Sono accadute molte cose in nome della religione – ha detto Larraìn – persone hanno sofferto e sono state uccise nel nome di Dio e vorrei che tutto questo non succedesse più. Grazie al festival a mio fratello, gli attori, abbiate una grande notte“. Nonostante gli applausi e i consensi, nessun premio è andato a Vergine giurata con Alba Rohrwacher, unico italiano in concorso. Ma vediamo gli altri premi:
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