Daniele Luchetti, “Anni Felici” fra scampoli di passato e immaginazione

Non è facile trovare l’aggettivo giusto per definire Anni Felici, il nuovo film di Daniele Luchetti che uscirà il prossimo 3 ottobre in 250 copie distribuite da 01 Distribution. Non è facile perché sono tanti, gli aggettivi giusti. Coraggioso, intenso, emozionante, anche un po’ provocatorio. Luchetti tiene particolarmente a questa sua opera, e il motivo è presto detto: per realizzarla ha scavato nel passato, utilizzando scampoli della sua vita familiare e mescolandoli abilmente con la fantasia. E lui non svela il confine fra “vero” e “immaginato”, in fondo il gusto è anche quello.

Anni Felici è ambientato nella prima metà degli anni Settanta a Roma; i protagonisti sono Guido (Kim Rossi Stuart), artista che vuole a tutti i costi essere d’avanguardia, e sua moglie Serena (Micaela Ramazzotti), donna che non nutre un particolare amore per l’arte ma in compenso ha collocato il marito al centro del proprio universo. Fino a un certo punto: poi le cose cambiano, la sua anima si sfibra a causa dei continui tradimenti di lui e – per certi versi – i ruoli s’invertono. Guido e Serena hanno due figli, Dario e Paolo (Samuel Garofalo e Niccolò Calvagna), 10 e 5 anni, che assistono senza censure a questa storia di passione, amore, ribellione. La voce narrante è quella di Dario, che in pratica è lo stesso Luchetti. Altro personaggio chiave è Helke (Martina Friderike Gedeck), titolare di una galleria d’arte, perfetto simbolo della rottura interiore ed esteriore, della sete di libertà, specchio in cui Serena finisce per riflettersi scoprendo cose di sé che spiazzano lei per prima e fanno saltare gli equilibri.

Gli interpreti di Anni Felici appaiono tutti in stato di grazia. A cominciare da Rossi Stuart, che ormai è molto selettivo nell’accettare ruoli perché “non è facile trovare proposte interessanti” ma che si è lanciato in questa sfida senza pensarci troppo, spinto dall’ammirazione per il cinema di Luchetti e dalla voglia di misurarsi con un personaggio difficile, “che correva il rischio di essere monolitico, di non avere una parabola, di risultare anche respingente. Non ho fatto un’analisi approfondita – spiega – ma mi sono permesso di fare proposte estreme di caratterizzazione“. E i risultati sono di tutto rispetto, Kim accende nello spettatore sentimenti contrastanti e con ogni probabilità era proprio questo l’intento del regista.

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Ottimo lavoro anche quello di Micaela Ramazzotti che, al contrario del collega, ha riflettuto a lungo sul modo in cui interpretare Serena: “non sapevo – ammette – da dove cominciare. Serena è una donna complessa, piena di contraddizioni. Una di quelle donne che sono mamme e anche zoccole, frivole e bigotte, tormentate e dotate di un fascino profondo. Vive l’amore in modo infantile, come un continuo ricatto, tentativi di ingelosire, abbandoni, ritorni“. Risolutivo, per Micaela, è stato l’incontro con la madre di Luchetti: “Sono partita dal suo sguardo. Ci siamo incontrate pochissime volte, entrambe sospettose. Ci guardavamo con reciproca diffidenza e credo sia comprensibile. Poi mi ha mostrato delle foto. E sono partita da là, sì: dal suo sguardo“.

Scritto dal Luchetti con Sandro Petraglia, Stefano Rulli e Caterina Venturini, Anni Felici fa ridere e piangere. E non è un modo di dire. C’è l’attimo in cui le lacrime sono facili, c’è l’attimo in cui scappa la risata. Scappa, per esempio, dinanzi alle gesta del pestifero Calvagna, perfettamente a suo agio nel ruolo del fratellino minore un po’ stravagante. A Samuel Garofalo spetta un ruolo più complesso, quello di protagonista e spettatore, figura dentro e fuori: se la cava benissimo.

Luchetti tiene particolarmente a questo film anche perché “è un atto d’amore nei confronti dei miei genitori. Per il modo in cui sono stati in grado di vivere le loro passioni fino in fondo e anche per quello che, invece, non è stato“. Ma, in fondo, è anche un atto di amore per la vecchia, cara, rivoluzionaria pellicola. “Probabilmente – dice il regista – è uno degli ultimi film che mi sarà possibile girare in pellicola. Per questo ho voluto usare il 35mm, il 16 e il super 8. Girando con la stessa macchina da presa super 8 che i miei mi regalarono per una promozione, mi sono reso conto di quanto fascino ancora abbia usate un negativo e un positivo e di quanta sensibilità, profondità di colore e fascino andranno perduti quando si girerà solo in digitale“.

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