VANESSA CROCINI DA LOS ANGELES – In questi giorni, dopo la tragedia al largo di Lampedusa, forse la parola “immigrato” è stata usata fin troppo. E’ difficile mettersi al posto di quelle persone che alla ricerca di un sogno e/o forse per scappare da guerre politiche e razziali o situazioni di povertà estreme decidono di rischiare tutto e lasciare il proprio Paese. Questo tema è forse uno dei più sentiti negli Stati Uniti a causa del confine con il Messico, dal quale ogni giorno migliaia di persone cercano di architettare il passaggio verso la “terra promessa”. Ecco perché il documentario Purgatorio di Rodrigo Reyes è molto interessante. Un viaggio verso il confine del Messico visto da un occhio attento che mostra luoghi e persone che sembrano protagonisti di un teatro dell’orrore, molto surreale e quasi uno specchio del Purgatorio di Dante, tra chi cerca di arrivare in Paradiso e chi forse è troppo vicino all’Inferno per uscirne vivo.
Il film inizia con una voce fuori campo dello stesso regista: “Chiudi gli occhi, Cerca di immaginare come era il mondo tanti, tanti anni. Pensa a quando le frontiere non esistevano“. Il concetto universale di frontiera nasconde povertà, violenza e un senso di paura paranoica verso lo straniero. Non vengono mai identificati i nomi delle persone intervistate nè i luoghi esatti nei quali ci troviamo: dal tentativo dei due uomini messicani di scavalcare la gigante barriera di acciaio che segna il confine, al medico legale che identifica centinaia di immigrati che muoiono ogni anno mostrando le ossa ritrovate tra le dune del deserto; dalle case bruciate a quelle abbandonate che danno un senso di desolazione assoluta; da un gruppo di bambini che a scuola fanno una lista delle loro armi preferite fino alla scena di un funerale di tre uomini assassinati durante il quale una donna descrive la brutalità con la quale sono stati uccisi; dai protestanti vestiti da angeli vicino all’autostrada con le scritta “Gesù sta per arrivare” fino alla terribile scena di cattura di cani randagi che vengono poi uccisi nel canile fino ancora al motel “El Dorado” completamente abbandonato. E’ difficile guardare il film senza esserne particolarmente toccati.
Il regista, arrivato da Città del Messico in California con la famiglia all’età di 6 anni, è cresciuto tra due diverse identità culturali, quella messicana e quella americana. Proprio il suo lavoro come interprete in tribunale per casi di criminalità in California lo ha portato a contatto con un contesto che nella sua condizione di immigrato non ha conosciuto molto bene. Ispirato da Werner Herzog e Stanley Kubrick, il suo documentario lascia da parte la politica e si concentra sul concetto di frontiera, esplorando i diversi punti di vista in maniera poetica quanto cruda e fin troppo reale. Lo spettatore non si sente a suo agio davanti a molte delle sue immagini che lasciano un senso di ansia, paura e allo stesso tempo una speranza un po’ sbiadita ma ricca di poesia. A definire certe sensazioni è sicuramente uno stile molto preciso. Reyes abbandona la camera a mano del tipico cinema veritè per immagini fisse e angoli molto precisi. Le riprese sono durate quattro settimane sul confine tra USA e Messico da Tijuana fino al sud del Texas con una troupe di tre persone e un mini van.
Reyes definisce Purgatorio un’esperienza brutale, poetica ed estremamente umana del confine tra Stati Uniti e Messico. Un film ben fatto, che fa riflettere sulla condizione umana e il conflitto tra la sua forza e la sua fragilità. E non possiamo che dare ragione al regista se trasliamo tutto al largo del Mar Mediterraneo. Purgatorio è attualissimo e non solo per quanto successo al largo di Lampedusa, ma perché è universale fa capire come l’uomo, con le barriere che ha costruito, abbia delimitato anche il suo modo di pensare ed agire.
Purgatorio – Official Trailer from RR Cinema on Vimeo.