Smetto quando voglio, Sydney Sibilia: “Non sono un portavoce, ma un intrattenitore”

Quand’era piccolo Sydney Sibilia adorava Robocop. L’avrà visto chissà quante volte, sapeva tutte le battute a memoria. Ma nemmeno nella più sfrenata delle sue fantasie sarebbe riuscito a batterlo. Arrivare prima di lui. Se gliel’avessero detto, probabilmente avrebbe reagito scoppiando in una fragorosa risata e scuotendo la sua zazzera castana. E invece, a distanza di qualche anno, è successo. Smetto quando voglio, la commedia che segna l’esordio di Sydney alla regia, nel primo fine settimana di programmazione ha incassato quasi un milione di euro piazzandosi al quarto posto dopo Belle & Sebastien, The Wolf of Wall Street e Tutta colpa di Freud. Ergo, il remake di Robocop sta dietro. Al quinto posto. Ed è stato distribuito anche con cento copie in più.

Sydney non trattiene la felicità. Ma allo stesso tempo non può fare a meno di sdrammatizzare: “Adesso faccio il ganzo con gli amici!“. Sdrammatizzare, ironizzare: due cose che gli vengono molto bene e che hanno contribuito a decretare il successo di questa “piccola” pellicola prodotta prodotta da Fandango e Ascent e interpretata da Edoardo Leo, Stefano Fresi, Valerio Aprea, Paolo Calabresi, Valeria Solarino, Lorenzo Lavia, Neri Marcorè, Libero De Rienzo, Pietro Sermonti, Sergio Solli, Stefano Fresi e Caterina Shulha. La vicenda ruota intorno a un gruppo di ricercatori universitari che, sfiniti dall’ormai eterno problema del lavoro, decidono di mettere in campo le loro competenze e i loro notevoli bagagli culturali per sintetizzare una nuova droga e fare così un trionfale ingresso nel mondo del crimine. Solo che non c’hanno i requisiti necessari, dunque accade un patatrac. Anzi, una serie di patatrac. Risata assicurata, parodia di celebri pellicole come I soliti ignoti, Romanzo criminale e persino Acqua e sapone, citazioni di serie tv americane fra cui Breaking Bad o Big Bang Theory e un lavoro certosino che magari se ne sta nascosto ma rappresenta uno scheletro ferreo.

Un successo che è cominciato ancor prima dell’arrivo nelle sale: non te l’aspettavi.
No, affatto. Siamo super contenti. Anche perché non è stata un’uscita “protetta” ma “kamikaze”, abbiamo avuto e abbiamo una concorrenza spietata: filmoni americani come – appunto – Robocop e grandi titoli italiani come Tutta colpa di Freud.

E poca promozione: avete puntato soprattutto sul web.
Abbiamo puntato sul web e sui social network perché sono gratis (ride, ndr)! Per il resto, niente cartellonistica, niente passaggi in chiaro; ci hanno ospitato in qualche trasmissione tv, è vero, e il merito va anche alla bella accoglienza della stampa.

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Non è mica facile piacere alla stampa. Soprattutto se si tratta di un esordio.
Già, e invece abbiamo mosso tutti! Che dirti… Sarà perché siamo pop. Siamo gente simpatica, alla mano… Siamo bravi ragazzi!

Usi sempre il plurale: non è una cosa molto diffusa, fra i registi.
Uso il plurale perché i film non si fanno da soli, il lavoro del regista non potrebbe mai bastare da solo. Io sono l’apice di un organigramma, sono un direttore d’orchestra, ma tutto si basa sul lavoro del team. Siamo noi… Siamo decine di persone.

Prometti che non ti monterai la testa quando diventerai un regista famoso?
Ma figurati se divento un regista famoso! La mia vita non cambia, eh. Stamattina ho preso il caffè come sempre… Anzi, da una parte spero che tutto questo movimento cessi presto, così posso tornare a fare le cose che più mi piacciono. Possono tornare a condurre una vita ritirata.

Hai già idee sul prossimo film?
Abbiamo cominciato a scrivere. Io non credo nel colpo di fulmine. Con i miei co-sceneggiatori (Valerio Attanasio e Andrea Garello, ndr) ci si vede tutti i giorni, spesso anche il sabato, dalla mattina alla sera. Si spegne tutto e si comincia a parlare, parlare, parlare… pescando in una sorta di setaccio naturale. Spesso butti le reti e le tiri su vuote, annusi l’aria ma poi capisci che stai andando nella direzione sbagliata; coltivi un’idea per due settimane per poi abbandonarla perché non funziona fino in fondo. E’ rabdomanzia.

Ed è un super lavoro.
Le cose devono essere fatte bene. Io non mi sento un grande artista, però considero fondamentali il lavoro artigianale, la genuinità, l’impegno. Perché è l’impegno che fa la differenza. E poi, in tutto questo, bisogna sempre divertirsi: se non ti diverti tu per primo, non puoi trasmettere il divertimento agli altri.

Paolo Virzì non perde occasione per parlar bene di questo film.
Sì, lui è davvero carino, gliene sono profondamente grato! Tra l’altro non l’ho mai visto dal vivo, ci siamo sentiti soltanto una volta per telefono. Ci avevi presi in concorso al Torino Film Festival ma non eravamo ancora pronti, da allora ha continuato ad esprimere consensi sul film. Se penso che quand’ero piccolo – adesso si arrabbierà perché sembra che voglio dargli del vecchio – ho affittato il dvd di Ovosodo e sono rimasto incantato… Ho pensato: “Che bellezza!!“.

Nella sceneggiatura c’è un bel mix di ispirazioni a cult italiani e americani, oltre a un’accurata commistione di generi: tu hai degli autori di riferimento?
Non autori, ma opere di riferimento. In Italia si bada troppo al regista, attribuendogli troppi meriti o troppe colpe. In America questa figura è sicuramente meno importante del prodotto in sé.

Questo film, in un certo senso, è diventato il simbolo del precariato giovanile. Dei laureati che dopo anni di studio non riescono a trovare un’occupazione adeguata.
Lo so… E quando ce ne siamo resi conti, è stata una tragedia.

Oh cielo, perché?
Perché io non volevo far riflettere ridendo, ma far ridere a basta. Non volevo parlare della crisi e la satira sociale m’interessava poco. Quando abbiamo cominciato a scrivere, l’obiettivo era dar vita a un film che noi stessi saremmo andati a vedere. Un film che valesse davvero il prezzo del biglietto – 8 euro sono tantissimi, se ci pensi, con tutte le cose gratis che circolano in Rete – e che fosse percepito come qualcosa di nuovo, sia pur frutto di parodie. Un film che fosse una figata: ecco il nostro unico desiderio. Alcuni ricercatori mi scrivono dicendo che ho dato loro voce; ma io non sono un portavoce, sono un intrattenitore (sorride, ndr)… Io voglio dare uno spettacolo che valga la pena vedere, tutto qua.

Hai messo su un cast azzeccato e tutt’altro che scontato.
In molti mi hanno fatto domande sul cast. In molti mi hanno chiesto come sia avvenuta la scelta. Beh, sarò ingenuo, ma è successo nel modo più semplice e lineare: tramite dei provini. Ho preso i più bravi, non mi è stato imposto nessuno. Tutto qua. Libero andava benissimo per quel personaggio perché è colto e molto intelligente, Marcorè perché volevo un cattivo che non convincesse fino in fondo. Ognuno di loro ha le caratteristiche che cercavo.

Anche Edoardo Leo ha fatto il provino?
Certo. Stava girando il suo film, si è organizzato ed è venuto in motorino. Io intendo il provino come una cosa nobile, che serve a tutti: agli attori e ai registi. E’ fondamentale per capirsi a vicenda. Anche per questo i miei provini arrivano a durare un’ora; per questo e perché mi pare il minimo, visto che la gente viene a farli.

Sydney, è ufficiale: tu non parli da regista.
… Questo dimostra che sono un outsider, che non ho sovrastrutture (ride, ndr)!

Sei felice?
Sono contento, sì.

Solo contento o anche felice?
Ok, sono anche felice (sorride, ndr).

La tua ambizione, adesso, qual è?
Voglio essere più pop possibile. Riprendere a lavorare e alzare ancora l’asticella.

Foto Mario Cartelli/LaPresse

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