Mia madre, Nanni Moretti mette a nudo un dolore privato e universale

Il film nel film è una fra le cifre stilistiche di Nanni Moretti. Una struttura composta da due livelli che abbiamo trovato nel Caimano e che ritroviamo in Mia madre, da giovedì 16 aprile in sala. Il primo livello coincide col racconto principale, il secondo è la realizzazione di un film che s’inserisce nell’intreccio. Margherita Buy è una regista – che si chiama proprio Margherita – intenta a realizzare una pellicola su una fabbrica in crisi e sulla conseguente protesta dei dipendenti, che ha scelto di affidare la parte da protagonista a un attore straniero ovvero John Turturro. Margherita Buy è anche una madre alle prese con la separazione dal compagno (Enrico Ianniello) e con una figlia irrequieta come molti adolescenti. Margherita Buy, ancora, è una sorella. Una figlia. Che col fratello, i cui panni sono indossati dallo stesso Moretti, affronta la malattia della madre e la sua morte imminente. Le questioni private sono così intense che esigerebbero tutta l’attenzione, ma bisogna lavorare. La sorella lo fa, continua. Il fratello sceglie di licenziarsi. Poi si vedrà.

Ritorna una delle cifre stilistiche di Moretti, sì. Ma allo stesso tempo è un lavoro diverso. C’è una componente autobiografica, nel senso che in molti tratti del personaggio della Buy si riconosce proprio lui; e pure lui ha dovuto fare i conti con l’elaborazione del lutto, quando ha perso – anni or sono – l’amata genitrice. Qua il lutto non è ancora avvenuto ma sta già lasciando il segno. E trasmette alle sue “vittime” un profondo senso di inadeguatezza, soprattutto a Margherita. Che si chiede come farà, che si condanna, che si arrabbia con se stessa e pare più volte sul punto di gettare la spugna. Perché tutto, tutto va a rotoli e l’aggravante è che invece la gente nutre la convinzione che lei sia forte.

Certo, Moretti non ha resistito alla tentazione di inserire la politica, ma in questo caso il suo spessore è notevolmente ridotto rispetto al dramma privato. C’è quasi ironia nella descrizione degli eventi. Disillusione, chissà. Vien da pensare che Moretti abbia voluto anche lasciare un messaggio, con questo film. E’ stanco? Anche lui ha pensato di ritirarsi nell’ombra e invece poi ha scelto di esporsi e scendere in campo? ne farà altri di film? Di certo la sua arte non è appannata e non lo è la sua creatività. Non lo sono l’arguzia, la lucidità, la sensibilità. Si tratta di capire cosa ci sia nel suo animo. A Turturro è affidato il compito di stemperare, in vari modo, e ci riesce egregiamente. Con quelle vesti di attore americano pieno di sé, capriccioso ma non esente da insicurezze nascoste.

Ancora una volta Moretti si mette dalla parte dello spettatore, naviga nella stessa quotidianità ma al contempo mostra di essere un gradino sopra. Non per avere più luce, bensì per denudare gli animi. Per stendere il dolore come un lenzuolo ad asciugare, osservarlo e descriverlo in ogni minimo particolare e poi esorcizzarlo. Fa male perdere i genitori, anche se accade quando si hanno quarant’anni o cinquanta. E’ sempre una brutta botta, un rivoluzione, un momento di confronto forzato e doveroso con se stesso. Un richiamo al bilancio a cui non ci si può sottrarre. Ci si commuove davanti a questo film. Si soffre. Poi le labbra si piegano in un sorriso. Si empatizza con quei figli ormai adulti ma che sempre figli sono. Ci si immedesima. E ancora una volta si conclude che può piacere oppure no, ma Nanni Moretti è diverso. Da tutti.

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