Pane e burlesque: la femminilità è un’arma contro la crisi

Una Sabrina Impacciatore inseparabile da piume di struzzo e bustini, che parla un francese maccheronico condito dall’accento del Sud Italia. Una Laura Chiatti con lenti spesse da miope, vestitini dimessi e tacchetti sciupati. Una Giovanna Rei in versione bomba sexy, ribelle con il chewing gum sempre in bocca e tanta voglia di volare in America. Una Michela Andreozzi che scopre il potere delle proprie curve ma senza mettere in secondo piano la vocazione di mamma e moglie. Eccole, sono loro le protagoniste di Pane e Burlesque, primo lungometraggio di Manuela Tempesta nelle sale da domani 29 maggio. Un’opera prima, una sfida, un sogno che si realizza. Perché era da anni che la Tempesta coltivava il progetto di scrivere e girare una commedia sullo stile di Full Monty ma tutta al femminile. Puntando proprio su quell’arte – il burlesque – che è sempre più diffusa lungo lo Stivale e strizza l’occhio a qualunque donna desideri scoprire e far emergere il lato più seduttivo di sé. Diventando soggetto e non oggetto, conservando eleganza e raffinatezza, alimentando voglie nell’universo maschile e decidendo se e fino a che punto concedersi.

Il burlesque, nel film della Tempesta, diventa strumento di riscatto sia personale che sociale. Sì, perché in quel paesino della Puglia sta andando proprio tutto a rotoli da quando la fabbrica di ceramiche Bontempi ha chiuso i battenti lasciando a casa buona parte degli abitanti. E di conseguenza sta andando tutto a rotoli anche nella sartoria di Vincenzo (Edoardo Leo) e Matilde (la Chiatti), in cui presta la propria opera anche la sarta Teresa (Andreozzi). Gli uomini passano quasi tutto il tempo nell’angusta sezione del sindacato gestita da Frida (Caterina Guzzanti), giocando a Fantacalcio e aspettano che le cose si aggiustino da sole; le donne fanno il loro dovere, o meglio indossano vecchi panni cuciti da una mentalità retrograda e priva di spiragli. Poi, ecco la rivoluzione. Ecco tornare, dopo un ventennio di assenza, Giuliana (Impacciatore). La figlia dell’ormai defunto Bontempi, che ha scelto come nome d’arte Mimì La Petite e gira il Meridione esibendosi in spettacoli di burlesque con le Divette. Giuliana conta di restare giusto il tempo necessario per vendere le proprietà di famiglia, ma gli eventi prendono il sopravvento. Le Divette si rivelano truffatrici doc, gli acquirenti tardano ad arrivare e Mimì La Petite ha assoluto bisogno di salire sul palcoscenico per campare. E nel frattempo negare a se stessa, in qualche modo, che non è più poi così giovane.

Decide dunque di “arruolare” Matilde, Teresa e Viola (rei), cameriera di un bar determinata a vestirsi e comportarsi come le pare. Infischiandosene di quei pettegolezzi che scandiscono le giornate. Il trio fa un po’ di fatica a carburare, ma grazie agli insegnamenti di Mimì ciascuna delle componenti scopre di possedere doti nemmeno lontanamente immaginate. E’ la gloria, da una parte. E’ il caos dall’altra. Perché all’inizio quegli spettacoli vengono fatti di nascosto, ma in breve tutto il paese viene messo al corrente di ogni dettaglio e vede coi propri occhi quelle moderne pin up in azione fra collant sfilati e capezzoli coperti con paillettes.

Il burlesque, nel film della Tempesta, riempie il portafoglio ma anche l’anima. Da’ vita a una sorta di epifania. E prima di arrivare al lieto fine occorre passare attraverso ostacoli che fanno riflettere. E’ una commedia, certo. Leggera, che strappa risate. Ma che mette lo spettatore dinanzi a questioni riguardanti – in un modo o nell’altro – proprio tutti: la crisi economica, la crisi dei rapporti, i ruoli nelle coppie di oggi, la solitudine e l’insicurezza che accompagnano i giorni e condizionano le scelte diventando gabbia difficili da aprire.

Non è stato facile girare questo film tutto al femminile e le protagoniste non lo negano: “Gli uomini sono più bravi a fare squadra – dice la Chiatti – mentre le donne, purtroppo, quasi sempre sono in competizione fra loro“. Lei ha accettato il ruolo di Matilde, ha accettato di imbruttirsi prima e cimentarsi con la figura di femme fatale dopo, perché questo personaggio un po’ sopra le righe l’ha attratta in modo irresistibile. Si sente negata per il burlesque (“già l’acquagym per me è una gran fatica…“) ma in realtà fa una figura più che dignitosa. E piace vederla alle prese con una comicità che finora non aveva trovato espressione. Al contrario, la Impacciatore ha detto sì principalmente per il burlesque. Per quel “fascino del passato” che da sempre cattura la sua attenzione, perché voleva “indagare cosa significhi vivere dentro una femminilità aggraziata e lontana dalla contemporaneità“. Non è nato un “amore chimico” con la sue compagne di set (“certe cose accadono di rado“), ma una collaborazione che ha dato frutti polposi nonostante qualche momento di comprensibile tensione, scaturito anche dal poco tempo disponibile (solo cinque settimane).

Il fascino del passato ha sedotto anche Giovanna Rei, che nell’interpretare il suo ruolo non ha potuto fare a meno di pensare alle sue nonne, alle loro sottovesti, alle calze di nailon tenute su con l’elastico. E a quel periodo in cui lei stessa scopriva la propria essenza di donna anche guardando foto delle pin up. Le pin up, creature di un’epoca ormai trascorsa eppure ancora vivida, grazie alle quali anche le donne formose potevano sentirsi a proprio agio e anzi riscoprire in se stesse una bellezza imponente quanto irresistibile. La più formosa del gruppo, Michela Andreozzi, che è anche co-sceneggiatrice, se la ride soddisfatta. Tutto questo le è piaciuto. Piacerà anche al pubblico? L’autoironia e il coraggio, di solito, non cadono nel vuoto…

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