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Categorie: Recensioni

Youth – La giovinezza: Sorrentino spiazza lo spettatore con malinconia e tinte forti

Premessa doverosa, anche se magari un po’ scontata: i film di Paolo Sorrentino dividono e fanno discutere. Sempre. Altrimenti il cinema di Sorrento perderebbe parte della sua essenza. E dunque anche Youth – La giovinezza, terzo e ultimo titolo italiano in concorso al 68esimo Festival di Cannes, ha ottenuto reazioni contrastanti. Durante la proiezione stampa gli applausi si sono alternati ai moti di dissenso; in serata, però, la premiere si è tradotta in una vera e propria ovazione. Nulla di nuovo, insomma. E si ricordi che due anni fa La grande bellezza non ha ottenuto alcun riconoscimento a Cannes, per poi riscattarsi con l’Oscar come Miglior Film straniero.

Questa volta Sorrentino racconta di un hotel sulle Alpi, di una natura silenziosa eppure imponente, di due vecchi amici (un compositore e direttore di orchestra interpretato da Michael Caine e di un regista alle prese col suo ultimo film ovvero Harvey Keitel) alle prese con lo scorrere del tempo. Perché, al di là delle varie letture e congetture, è questo l’argomento attorno cui ruota la fatica sorrentiniana: “Il tempo che passa – spiega Sorrentino – quello che abbiamo alle spalle e quello che ci resta da vivere è veramente l’unico tema, o almeno quello che interessa a me. Il film si intitola La giovinezza perché è il futuro che mi interessa, il futuro come uno spazio di libertà, una condizione dell’esistenza che non ha che fare con l’età anagrafica“.

I due anziani amici non sono gli unici in scena. L’albergo ospita anche Leda, la figlia di Fred (Caine) interpretata da Rachel Weisz; un attore americano (Paul Dano) che si sta preparando per il prossimo ruolo, Miss Universo (Madalina Ghenea), un’attrice ottantenne – Brenda, volto e corpo di Jane Fonda – scoperta e tramutata in star proprio da Mick (Keitel) parecchio tempo addietro e persino un Maradona (Roly Serrano) che, nonostante la schiavitù della bombola dell’ossigeno, ancora riesce a stupire con le sue prodezze. E in fondo poco importa se adesso, al posto del pallone, c’è una pallina da tennis.

Attraverso lo sguardo di Fred e Mick, che si posa su tutti i presenti, si snodano dunque riflessioni sul futuro immediato, sulla maturità, sul consumarsi della vita cui nessuno può sottrarsi. Su ciò che si è perso e che non potrà più tornare. O essere recuperato. Sorrentino ha dato voce e immagine ai suoi pensieri, anche se è difficile capire quanto ci sia di lui nella figura del direttore d’orchestra; difficile oppure di libera interpretazione. Le immagini, com’è tipico del suo stile, sono maestose e protagoniste. Dotate di una forza e un fiato quasi universali, anche se meno “barocche” – ma ugualmente decadenti – rispetto a La grande bellezza. E a proposito di bellezza, essa torna. In una sorta di ideale prosecuzione del discorso cominciato precedentemente. Perché cos’è l’esistenza, se non una serie di desideri che spesso hanno come fine ultimo proprio la bellezza, nelle sue mille declinazioni? La bellezza, gemella dell’emozione, che fino a un certo punto diventa pulsione e passione; dopo, invece, è contemplazione. Spiritualità. Capacità di godere anche senza toccare. Senza fremere. La bellezza è la Ghenea, nuda davanti agli occhi dei due protagonisti. I quali la guardano con calma, appagati anche soltanto dalla vista. Ma la bellezza è anche il sesso urlato di una coppia che pareva senza parole, nei monaci buddisti e in tutte le figure minori che arricchiscono questo quadro non prive di tinte felliniane.

Sorrentino provoca, ancora una volta. La sceneggiatura è meno ricca del solito, o sarebbe più giusto dire meno “piena”. Perché mira e colpisce con la consueta intensità. Si resta spiazzati più volte e pare sia proprio questo il gioco di Sorrentino. Pare si diverta nell’illudere lo spettatore di aver capito, di aver trovato la strada… E poi spiazzarlo di nuovo. Si ricomincia. Si mette in discussione. Tutto, tranne la sua arte.

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