#Review – “Cloud Atlas”, il film impossibile

Si può raccontare al cinema una storia di reincarnazioni e di destini incrociati, con una miriade di protagonisti, suddivisa in sei momenti temporali tra il 1800 e il futuro post-apocalittico? David Mitchell, autore del romanzo L’Atlante delle Nuvole edito nel 2004, aveva sempre giudicato non fosse possibile tradurre per immagini la sua opera. E invece no, i fratelli Wachowski, coadiuvati da Tom Tykwer del cult “Lola Corre“, l’hanno fatto. Dopo “Matrix“, dopo “V per Vendetta“, questo “Cloud Atlas” probabilmente è il loro terzo caposaldo. Meno epocale di Matrix, meno seminale di V per Vendetta, ma emozionante come pochi.

Le sei storie raccontano la reincarnazione di varie anime nel corso dei secoli, e come i destini degli uomini e dei loro spiriti si intreccino continuamente. In ordine cronologico – non quello di visione per il pubblico – si parte col diario di navigazione di un giovane medico morente in viaggio verso casa dalle colonie nel 1850. Successivamente abbiamo le lettere d’amore di un giovane compositore suicida ed omosessuale al suo amato, nel Belgio del 1930. La terza storia riguarda l’inchiesta di una giornalista investigativa su un impianto nucleare negli Stati Uniti del 1975. La quarta sequenza riguarda le disavventure di un anziano editore rinchiuso in un ospizio nella Londra del 2012. Il quinto episodio racconta la storia di un clone nella Corea del Sud totalitaria del 2144. L’ultimo conclusivo atto è ambientato dopo l’apocalisse della civiltà, circa nel 2300, e vede al centro un gruppo di sopravvissuti rintanato nelle Hawaii. Il protagonista di ogni storia ha in qualche modo letto, visto o ascoltato parte della storia a lui precedente, e ha il dono di una voglia a forma di cometa sul corpo, segno tangibile della forza del destino che unisce le varie anime.

Siete confusi e non trovate il bandolo della matassa? La chiave è nel non considerare le storie come a sè stanti, ma nel riconoscere nelle varie anime i veri protagonisti del film. Ogni interprete nel corso delle varie storie ricompare sempre come l’incarnazione della stessa anima, quindi l’evoluzione dei personaggi è da vedere nel quadro complessivo dell’opera. Sotto questo punto di vista, il personaggio più ricco di sfumature ci è dato da Tom Hanks, che interpretando l’animo dell’uomo comune, evolve nel corso dei secoli dalla scelleratezza alla saggezza, e fa riappacificare lo spettatore con sè stesso. L’espiazione dell’anima dell’uomo comune, e le sue successive rinascite, ad ogni ciclo di reincarnazione sempre più probe e savie, rendono l’arco del racconto fortemente incentrato sull’umanità nel senso più universale possibile. Il messaggio del film è apparentemente nelle mani del clone messianico Sonmi 451, ma il vero nucleo del film è come questo messaggio viene assorbito ed interpretato dagli uomini, e come giunge a formare, tramite l’esperienza, la saggezza finale del vecchio Zachry che funge da voce narrante nel prologo e nell’epilogo della pellicola. Speculare alla figura di Tom Hanks abbiamo quella di Hugo Weaving, ormai attore feticcio dei Wachowski, che qui si trova ad incarnare un male sempre più scientifico ed assoluto, diventando in fine la personificazione del demonio stesso.

Il film è dunque poderoso, e fortemente incentrato sul senso di comunione universale tra gli uomini attraverso il tempo e lo spazio. E’ anche un film sulla schiavitù, e su come l’uomo tenda spesso a compiere gli stessi errori anzichè imparare da essi, ovvero su come la sottomissione dell’altro è l’unico vero modo per l’umanità di esprimere il proprio potere. Considerando ogni episodio a sè stante, seppur il minutaggio intorno alle tre ore, non è possibile godere di sottotrame approfondite, e da questo punto di vista il film è quasi un fallimento. Ma nella visione d’insieme, il mix meraviglioso di anime, eventi, generi stilistici, personaggi, lingue, interpretazioni, e la presenza di un filo rosso che in qualche modo le collega tutte, consentono di realizzare un affresco meraviglioso e imponente, che francamente anche avendone la capacità non oseremmo modificare in nulla. Sarebbe come voler contestare i dettagli del dipinto ad un impressionista.

In un punto tecnico eccelle poi la pellicola, quello probabilmente fondamentale per la sua coesione, vista la mole di avvenimenti da gestire: il montaggio, strepitoso. Credo che mai nessun altro film potrà riuscire a collegare così efficacemente tante storie e tante emozioni spesso contrastanti come ha il merito di essere riuscito ad ottenere “Cloud Atlas”. Anche la fotografia merita una menzione d’onore, presentanto alcune inquadrature dallo schietto impatto emotivo. Considerando la natura indipendente della pellicola e i problemi produttivi e finanziari che i tre registi hanno dovuto affrontare per portarla a compimento, c’è da spellarsi le mani in applausi.

Consigliamo dunque la visione a chiunque abbia il coraggio di lasciarsi andare per un viaggio tumultuoso nell’animo umano. Statene alla larga se non avete la pazienza di ascoltare.

Cloud Atlas
Il Semaforo: Luce Verde

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