“L’ultima ruota del carro”, recensione: film d’apertura del Festival del cinema di Roma

Il piccolo Ernesto è “l’ultima ruota del carro”: a casa il padre (Massimo Wertmuller) lo comanda a bacchetta e lo considera una nullità, e persino il suo migliore amico, Giacinto, lo snobba quando giocano a calcetto; senza arte nè parte, da ragazzo Ernesto (Elio Germano) comincia a lavorare con suo padre come tappezziere, si innamora di Angela (Alessandra Mastronardi) che diventa la sua compagna per la vita: con la moglie costruisce una famiglia e cerca di tirare avanti seguendo con onestà i propri princìpi, nonostante Giacinto (Ricky Memphis) continui a trascinarlo “negli impicci”, approfittando della sua buona fede.

“L’ultima ruota del carro” di Giovanni Veronesi fa rivivere la storia dell’Italia dagli anni Sessanta ad oggi attraverso le vicende di un uomo qualunque, che segue dall’infanzia fino alla mezza età: un filone già imboccato con successo da Marco Tullio Giordana ne “La Meglio Gioventù” e Daniele Luchetti ne “La nostra vita” (guarda caso, sempre con Germano che per quel ruolo ha vinto anche il premio come Miglior attore al Festival di Cannes).

Come ci ha abituati, Elio Germano offre un’interpretazione degna di nota, che in alcune parti oscura gli altri protagonisti: è facile immaginarsi nei panni di Ernesto, un uomo che si arrangia in tutti i modi per sbarcare il lunario e mantenere con dignità la propria famiglia, ma che non rinuncia a inseguire i propri sogni e le proprie ambizioni, anche rinunciando al tanto sospirato “posto fisso” come cuoco in un asilo. Tra gli altri personaggi, il più interessante è l’artista sopra le righe interpretato da Alessandro Haber, in un ruolo che gli si addice alla perfezione: quando sono insieme sullo schermo, Haber e Germano fanno letteralmente scintille, riproducendo un surreale rapporto padre-figlio che aiuta Ernesto a maturare e a superare le sue debolezze.

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