Claudio Insegno: “Imparare il mestiere, così si salva il cinema”

È sbarcato al cinema il 30 maggio. Stiamo parlando di “Una notte agli Studios“, il primo fantasy in 3D italiano, con Giorgia Wurth, Enrico Silvestrin, Peppe Iodice, Francesca Nunzi, Sandra Milo, Eva Robin’s, Pino Insegno, Michele La Ginestra e la partecipazione di Daniel Mc Vicar e Luca Ward. Un progetto coraggioso, che va oltre i tradizionali schemi ai quali il cinema italiano è abituato. Una pellicola che racconta le incredibili avventure di due comparse, Filippo e Giorgio, con un compito assai arduo: salvare il cinema. Noi abbiamo avuto il piacere di scambiare quattro chiacchiere con il regista e interprete del film, Claudio Insegno. Con la sua simpatia e cordialità, a Velvet Cinema ha parlato del suo film, di se stesso e del cinema italiano. Ecco cosa ci ha raccontato.

Arriva il primo fantasy 3D italiano, “Una notte agli Studios”

[Foto] Il cast del fantasy 3D “Una notte agli Studios”

“Una notte agli Studios” è il primo fantasy in 3D italiano e tu sei sia regista che interprete. Meglio davanti o dietro la macchina da presa?
“Guarda, in questo caso era meglio fare tutto quanto. Dal momento che il concept di questo film è nato da una mente perversa, doveva essere portato avanti da una persona che lo amava a tal punto da capire fino in fondo quale poteva essere il risultato. Certo, se mi rifacessi la domanda, sicuramente ti risponderei che era meglio non fare nessuno dei due perché è stato faticosissimo! Ma anche molto bello. L’esperienza davanti alla macchina da presa è stata divertente perché i compagni di lavoro erano meravigliosamente simpatici e scelti apposta per portare un risultato divertente; dietro invece è stato un po’ più faticoso. Però nell’insieme è come aver fatto un bambino, diciamo che l’ho concepito totalmente io e quindi è al cento per cento mio figlio”.

Come e perché è nata l’idea di realizzare un fantasy in 3D?
“Forse perché in questo Paese stiamo sempre dietro alla commedia all’italiana. Ed è anche giusto, fa parte di una nostra crescita, di un nostro percorso e anche di una nostra storia. È bene portare avanti questo genere. Però il problema è che io non sono in grado. Mi sentivo più adatto nel fare una cosa fantasiosa, più vicina allo stereotipo americano piuttosto che italiano e quindi ho provato questa strada. L’altra la lascio ai grandi, a quelli che la sanno percorrere. Anche se quei grandi ora non ci sono più. Certamente chi c’è adesso fa commedia e la fa anche bene, ma non è più come prima”.

I due protagonisti della pellicola hanno il difficile compito di salvare il cinema. Hai per caso preso spunto dalla delicata situazione che stanno vivendo i celebri studios di Cinecittà?
“È successo insieme. È stranissima questa cosa. Io ero un po’ ispirato dalla situazione di Cinecittà, perché già non versava in condizioni meravigliose, ma non pensavo fino tal punto. Quindi è stato un caso. Sono stato un po’ profetico da questo punto di vista”.

È ormai un dato di fatto: il cinema italiano è in crisi. E la complicata situazione economica che il Paese sta attraversando non è di aiuto. Pensi che ci possa essere una via di salvezza per il nostro cinema? E quale?
“La via di salvezza per la situazione critica ci potrebbe anche essere. Il problema è che dovremmo ridare il mestiere a chi lo faceva. Non ci sono più quelli che lo facevano come una volta. Manca il personaggio che fa lo sceneggiatore, quello che fa il produttore, quello che fa il regista, quello che fa l’attore. Attori ormai si diventa con un reality, come niente fosse. Il regista lo fanno un po’ tutti. Il produttore basta che trovi i soldi da qualche parte. Questa improvvisazione, sicuramente, non aiuta il cinema. Se riuscissimo a ritrovare quelli che lo facevano potremmo risolvere la situazione. Ma questo è un po’ improbabile. Quindi rimane un’unica via di salvezza da percorrere: coloro che stanno facendo il cinema adesso devono imparare un po’ di più il mestiere”.

Nella tua carriera professionale ci sono televisione, cinema e teatro. Una grande passione divisa per tre o uno di questi mondi gode di una tua particolare predilezione?
“Facciamo così, la televisione eliminala proprio. L’ho fatta, ma in televisione mi sento un pesce fuor d’acqua, non fa parte del mio Dna. Distruggerla no, per carità. La televisione, in un certo senso, fa comodo perché porta sempre qualcosa di buono ai personaggi. La mia vera e propria passione è per il cinema. Quando ero piccolo non facevo altro che andare al cinema e lo faccio tutt’ora. Il cinema viene prima di tutto. Ma il problema grande è che faccio teatro da trentacinque anni! Di conseguenza non posso non nutrire un’enorme passione per il palcoscenico, che ormai è diventato la mia casa. Nel teatro ci sguazzo, mi ci muovo bene, ho costruito delle fondamenta talmente forti che non posso abbandonarlo. Il cinema, che è sempre stata la mia passione, lo sto iniziando in questo periodo, mi piace da impazzire, ma capisco che è anche più difficile. Non tecnicamente, ma è più complicato arrivare al cuore degli spettatori”.

Quando eri bambino cosa pensavi di fare da grande?
“All’inizio il benzinaio, perché mi piaceva l’odore della benzina! Ma questa è stata una piccola parentesi. La passione per l’arte non l’ho avuta da subito. Andavo al cinema, ma non pensavo che andasse a finire così. Andavo a teatro a vedere “Aggiungi un posto a tavola”, ma non credevo che fosse la mia casa. Non avevo un’idea ben precisa. Sicuramente amavo le lingue, quindi fare l’interprete. Però poi per un caso siamo stati catapultati nel mondo dello spettacolo, io e Pino (il fratello ndr) non eravamo figli o nipoti d’arte. Ma erano altri tempi e si poteva azzardare”.

Perché andare al cinema e scegliere di vedere “Una notte agli Studios”?
“Per un puro e sano divertimento, perché secondo me il cinema è evasione. Non che non si debba riflettere, ma sicuramente rappresenta un’evasione necessaria per poi pensare a qualcosa. Questo forse non è il momento di andare al cinema solo per rattristarsi e distruggersi l’anima. Andare a vedere questo film vuol dire sognare un pochino, giocare come quando eravamo bambini. C’è bisogno di sognare e di evasione. Direi che i motivi principali sono proprio questi, poi se c’è un messaggio questo lo si può interpretare o meno. Non è importante. Ciò che conta è sognare”.

Foto by Kikapress.com

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